Sapevate che oggi visitiamo un edificio noto come casa di Augusto, ma che lui non ha praticamente mai usato, e che la casa “di Livia” non era solo di Livia? Recentemente ho ripreso in mano un pò di bibliografia recente per un approfondimento. Il tema è complesso, complicatissimo e la bibliografia lo è ancora di più. Il risultato, quindi, è che la storia più diffusa sulla casa di Augusto è che lui aveva un appartamento, sua moglie Livia un altro e noi oggi li visitiamo. No, non è proprio così, anzi! Ve ne parlo in questo post.
Senza fine
Augusto nacque nel consolato di Cicerone e di Antonio (63 aC) il ventitré settembre, nella zona del Palatino detta “alle teste di bue”, dove ora gli è dedicato un sacrario, realizzato un certo tempo dopo la sua morte (Suet., Aug., 5).
Probabilmente la discussione tra gli archeologi a proposito di quali case tardo repubblicane avesse usato Augusto per comporre la propria magione sul Palatino non si esaurirà mai. Io qui cercherò di riassumere per voi i termini della questione dibattuta soprattutto tra due giganti dell’archeologia di Roma: Filippo Coarelli e Andrea Carandini. Non sono ovviamente gli unici ad averne parlato, ma a mio avviso sono quelli che meritano attenzione più di altri, sia per metodo che per preparazione. Il resto sono sfumature spesso infondate o eccessive – esistono anche i revisionisti ma nemmeno ve li cito.
Dobbiamo partire dall’oggetto del contendere: le case di Augusto, al plurale. Le fonti letterarie, che fra un attimo vi citerò, ricordano infatti una casa costruita sfruttando immobili preesistenti, che Augusto a un certo punto acquisisce e trasforma in una casa molto più grande. Troppo grande. Talmente esagerata che gli viene il dubbio che stia facendo lo stesso errore strategico di Giulio Cesare, suo prozio nonché padre divino, per cui deve rapidamente modificare il tiro.

Gli serve una scusa, una scusa credibile per partire con un nuovo cantiere, si deduce dai fatti accaduti. A quanto dice l’archeologia, ci sono tracce di due fasi di cantiere, una per la casa esageratamente grande e uno, successivo, per demolirla e ricostruirne un’altra, questa volta imperniata attorno a un tempio, il santuario di Apollo. Una casa sempre esageratamente grande ma ripensata nelle parti: due terzi pubblica (tempio di Apollo + area pubblica), un terzo privata.
Le fonti ricordano che un fulmine colpì le case di Augusto e dopo quel momento sorse il tempio dedicato al dio. In pratica, un ottimo escamotage per cambiare progetto e “correggere” il piano urbanistico con il quale, in ogni caso, si sarebbe appropriato del Palatino. Un fatto per altro scandaloso, essendo Roma appena uscita da 500 anni di Repubblica, di cui 100 macchiati da torbide e violente guerre civili.
Dicevamo la discussione tra gli archeologi. Il fatto è questo: negli anni 90 è stato fatto uno scavo stratigrafico. Non il primo scavo nella storia del Palatino, che, se è per questo, è stato prima rasato dalle arature medievali e poi esplorato, o meglio, sterrato, a partire dalla metà dell’Ottocento da Pietro Rosa e poi negli anni 50 da Gianfilippo Carettoni.
Negli anni 90, le archeologhe Irene Jacopi e Giovanna Tedone conducono alcune indagini in un punto nodale della casa di Augusto “esageratamente grande” e tirano fuori importantissime evidenze circa quel progetto costruttivo e, poi, circa le fasi edilizie successive. Tuttavia, i loro dati sono stati comunque interpretati diversamente da Carandini e da Coraelli, perché i due archeologi partono, in sostanza, da un approccio diverso sia al dato materiale, sia alle notizie riportate dalle fonti letterarie.
Riassumendo: sul Palatino si conservano “varie” case di Augusto; i dati archeologici rispecchiano la complessità suggerita dalle fonti letterarie, le quali però sono troppo vaghe e puntiformi rispetto alla ricchezza offerta dalla stratificazione e dalle strutture superstiti.
E qui si gioca il diverso approccio dei due archeologi, diremmo le due diverse scuole di pensiero: la stratigrafica e la topografica. Carandini, nei volumi La casa di Augusto scritto con Daniela Bruno nel 2008, poi ampliato e corretto in Le case del potere, scritto con Daniela Bruno e Fabiola Frajoli nel 2010, parte dalla realtà materiale e la mette in relazione con Suetonio. Coarelli, invece, nel suo volume Palatium, edito nel 2012 in esplicita riposta ai volumi di Carandini (l’introduzione è un vero spasso, per quanto tragica nella sua polemica decadente) dice testualmente che la realtà materiale è insufficiente a dirimere la questione, quindi meglio fare riferimento alle fonti letterarie, che sono:
Velleio Patercolo (morto dopo il 30), Suetonio (morto dopo il 122), Cassio Dione (morto nel 235).



Nel riferirsi alle fonti testuali, e proprio come suo metodo, Coarelli non fa alcun accenno a planimetrie né di fase, né tantomeno ricostruttive, per cui la sua opera è una trattazione – tanto lucida e sistematica, quanto destabilizzante se non si sanno a memoria, letteralmente, i muri citati – della complessa vicenda delle case di Augusto. È chiaramente un libro scritto contro Carandini, anche se lui dice che non è così. E lo è nel momento in cui ribatte punto per punto quanto si scrive nei testi editi dall’altro.
A me questo interessa nella misura in cui valuto i metodi, ma, da lettrice (specialista in archeologia dell’architettura) che vorrebbe seguire il discorso, mi ritrovo ad annegare in una marea di dati topografici per i quali non si offre alcuna base grafica. E questa è cattiveria pura.
Carandini, dalla sua, è un archeologo, quindi uno storico, e uno stratigrafo, ha scavato per trent’anni le viscere del Palatino e onestamente, dal mio punto di vista, conferisce al dato materiale la priorità che merita. Non solo: nei suoi volumi troverete moltissime illustrazioni, dove è indicata la serie di strutture considerate, sia in pianta che in sezione.
È un metodo, questo, nel quale io mi ritrovo e che giudico anche onesto, perché si assume la responsabilità della prova di quanto ipotizzato per iscritto, valorizzandone tecniche costruttive, dati stratigrafici e quote. Come capirete, se vogliamo parlare di architettura dobbiamo ragionare da architetti, non da poeti.

Ecco quindi, che vi catapulto in una discussione che non finirà mai, ma che però trovo interessante dal punto di vista della natura complessa della ricerca archeologica e delle risposte che può eventualmente fornire. Non c’è nessun mistero, nessun tesoro, come ancora ci fanno credere certi giornalisti da scoop, bensì tanto studio, tanta conoscenza della topografia e tante domande che non sempre hanno una risposta, chiara e univoca.
E soprattutto state allerta rispetto ai messaggi pubblicitari che il Parco di turno vi propone vendendovi cose che non esistono. E adesso vi spiego cosa intendo.
Le date, senza quelle non c’è storia
Prima di tutto vi voglio dare le date cruciali, così come faccio con i miei allievi. Senza date non c’è storia che tenga.
- 44 aC, muore Giulio Cesare. È la fine della repubblica e l’inizio di una nuova pagina scritta dal giovane Ottaviano, che all’epoca ha solo 19 anni
- 42 aC, primo sassolino via dalla caliga: battaglia di Filippi, prima della quale vota il tempio a Marte Ultore al foro di Augusto, allora in costruzione; durante la quale sconfigge gli assassini di Giulio Cesare, Bruto e Cassio; dopo la quale torna a Roma per attuare la sua vendetta.
- 36aC, nella battaglia di Naulocos sconfigge Sesto Pompeo, l’ultimo scoglio. Anzi, il penultimo. Nello stesso anno le fonti ricordano anche la caduta di un fulmine sulla sua casa (o case) al Palatino. Ci torneremo dopo. [Nella storia immobiliare del Palatino non è però chiaro se Ottaviano abbia acquistato prima di quell’anno altre case per ingrandire quella di Ortalo oppure dopo. Suetonio sembra non farne menzione. Coarelli crede a Suetonio, Carandini invece ritiene che già prima del 36 aC avesse aggiunto altri immobili. Su questo fatto si gioca lo scontro.]
- 28 aC, il tempio di Apollo viene inaugurato e quindi, per logica, la sua casa definitiva è completata.
La casa 1. Quella piccola.
Possiamo affermare che le case di Augusto sono almeno 3, per Carandini 4.
Sono case che cambiano forma e dimensioni, ma anche significato, nel volgere di vent’anni circa.
La casa 1 è generalmente identificata con quella appartenuta a Quinto Ortensio Ortalo; era rettangolare allungata, aveva almeno tre piani ed era costruita in opera quadrata, principalmente. Questa casa si sarebbe trovata lungo le “Scale di Caco”, in pratica la discesa che oggi dobbiamo percorrere per visitare “la casa di Augusto”.
Augusto, che era ancora “solo” Ottaviano, avrebbe risieduto in questa casa – diciamo pure che l’ha occupata – subito dopo la battaglia di Filippi, cioè dal 42 aC. Il senso di questa mossa è che essendo ormai l’unico signore di Roma con un minimo di strategia e un bel gruzzolo di famiglia, poteva ambire a diventare un dictator, come andava di moda dagli anni ‘80, come aveva tentato di fare suo zio.
E così, intanto si insedia sul colle più prestigioso di Roma, discretamente. Se non altro occupando un immobile già esistente (poi sul come lo abbia ottenuto è un altro paio di maniche).
In seguito abitò sul Palatino, ma comunque nella modesta casa di Ortensio, che non si segnalava per dimensioni né per ricchezza: in effetti, vi erano solo brevi portici con colonne di peperoni e ambienti privi di marmi o di pavimenti lussuosi (Suet., Aug., 72.1)

La casa 2. Quella esageratamente grande.
Ora, vado avanti nella descrizione delle case altrimenti perdiamo il filo, poi tornerò sull’archeologia delle case, cioè che cosa si conserva materialmente di ciascuna di esse.
Deve essere accaduto che a un certo punto Ottaviano vuole ingrandirsi. La piccola e vecchia casa di Ortensio Ortalo non è degna del suo ruolo (e del suo ego) e va ampliata. Si progetta allora un ampliamento della Casa 1, che procede per gradi. Prima si aggiungono delle stanze nel settore rivolto verso la Valle del Circo Massimo.
– Qui, come ho anticipato, si dividono le scuole di pensiero. Alcuni credono che ciò sia avvenuto prima del 36 aC (Carandini), altri dopo il 36 aC (Coarelli)-
Poi, osando ancora di più, Ottaviano progetta direttamente una casa gemella, nell’area oggi occupata dal settore pubblico del Palazzo Flavio (quello con il ninfeo ottagonale). E questa casa è esageratamente grande.
Tra le due c’è un’area rettangolare, un’area libera, che solo successivamente sarà occupata dal santuario di Apollo. Insomma, Ottaviano sembra atteggiarsi a principe ellenistico, d’altronde quella era la cultura della quale era permeato e quella era l’idea che quasi certamente lo zio Cesare gli aveva trasmesso.
La casa 3. Quella sacra e pubblica.
Ma poi qualcosa cambia violentemente. A quanto pare la casa 2, esageratamente grande, quella con due peristili, viene rasa al suolo. Rasa al suolo, riempita e abbandonata. Anzi, meglio, usata come base per una nuova casa costruita a una quota superiore.
La casa 3 è quella definitiva, quella che Ottaviano “corregge” per renderla meno vergognosamente simile alla reggia di un principe ellenistico e, invece, più affine a ciò che andava predicando: la rettitudine morale, la misura.
Già, per altro, stava operando una pulizia dell’élite dirigente con uno spargimento di sangue che nelle sue Res Gestae si è ben guardato dal precisare. Ça va sans dir.
Ecco però che subentra il caso, o forse il Fato, a scagliare giù sul Palatino un fulmine, un evidente e chiaro segnale divino che ancora nella cultura romana repubblicana e imperiale era registrata negli annali come un prodigio.
Zeus, al genitivo “Dios” (ve lo traslittero dal Greco): “luce”. Capite? Il fulmine era emanazione diretta del Divino. E nel caso di Ottaviano quel Divino era Apollo, il giovane e saggio e intelligente ed equilibrato Dio al quale si era appellato nella sua corsa al potere contro Marco Antonio.
Ecco allora che l’escamotage consente la rettifica. Secondo alcuni fu proprio il fulmine, secondo altri fu la coincidenza, sempre nel 36 aC, della vittoria contro Sesto Pompeo a Naulocos, forse fu per entrambi i fatti.
Ottaviano abbatte i muri della casa esageratamente grande e ne progetta un’altra, sempre con due peristili, su due piani, ma al centro della quale campeggia il grande Santuario di Apollo, introdotto, a valle, verso il Circo, da un possente cortile rettangolare.
Un cortile per sostenere il quale si gettano poderose fondazioni, le quali, oggi, chiudono le originarie aperture delle stanze del vecchio peristilio.

Quelle che vediamo nel percorso all’interno della “casa di Augusto”.
– Secondo alcuni questa operazione avviene dopo la caduta del fulmine (Carandini); secondo altri solo dopo il 36 aC Ottaviano acquista altre case e avvia il progetto della casa 2 con due peristili, quindi solo tra il 34 e il 28 aC, anno in cui si inaugura il Tempio di Apollo, costruisce e completa la casa 3, quella definitiva.
Tutto chiaro ? Se la risposta è no, avete solo bisogno di tempo per digerire la cosa.
Ed ecco cosa dicono le fonti antiche a riguardo (le ho tratte da Palatium di Coarelli):
Tornato a Roma dopo la vittoria (di Nauloco) Cesare, avendo comprato un certo numero di case tramite i suoi emissari, in modo da ampliare la sua, si impegnò a destinarle a uso pubblico e promise di costruire un tempio di Apollo e intorno ad esso portici, che in seguito vennero da lui realizzati con ricchezza eccezionale (Vell. 2.81.3).
Eresse un tempio di Apollo in quella parte della sua casa sul Palatino che, essendo stata colpita da un fulmine, secondo gli aruspici era richiesta per sé dal dio; vi aggiunse un portico con una biblioteca latina e greca, dove, ormai vecchio, spesso riunì il senato e scelse le decurie dei giudici (Suet., Aug., 29)
Fu decretata per lui la costruzione di una casa a spese pubbliche: egli infatti aveva donato allo Stato e consacrato ad Apollo, dopo che su di esso era caduto un fulmine, il terreno sul Palatino che aveva acquistato per realizzarvi un’abitazione (Cass.Dio 49.15.5).
Archeologia delle case (come una guida)
Il Palatino è stato sterrato e scavato a lungo. Le arature medievali delle sue vigne avevano già azzerato molte architetture, già abbattute dai numerosi terremoti.
Poi alla metà dell’Ottocento, Pietro Rosa, archeologo di Napoleone III, porta in luce il tempio di Apollo, strade repubblicane, case repubblicane. Ancora in quell’epoca viene fuori una “fistula”, un tubo dell’acqua con impresso il nome al genitivo della proprietaria della conduttura, IULIAE AUG(stae). Il nome è quello di Livia Drusilla, la moglie di Augusto, nominata Augusta alla morte del principe nel 14 dC. Lei ha conservato questo titolo alla sua morte, avvenuta nel 29 dC. Ci torneremo.

Negli anni 50 del Novecento scava qui Gianfilippo Carettoni, archeologo e funzionario della Soprintendenza, il quale indaga le case repubblicane sul Palatino. Il suo scavo è quasi inedito, si redigono un paio di piantine topografiche ma senza fornire una analisi stratigrafica. Contesti irrimediabilmente perduti.
Negli anni 90 Irene Jacopi e Giovanna Tedone conducono uno scavo stratigrafico (finalmente!) nell’area della casa di Augusto. Questo scavo ha fornito una base scientifica sulla quale poter ipotizzare almeno tre fasi costruttive del complesso.
Perché il fatto fondamentale da comprendere è che, se esiste una realtà materiale complessa (muri, pavimenti, pitture, tagli e rasature) è il caso di prenderla in considerazione nell’analisi, invece di cassarli come “insufficienti” e passare solo alle disamina delle fonti scritte. Sono testimonianze con un peso specifico differente e l’ideale sarebbe usarle contestualmente.
Ecco, qui si dividono le scuole: Carandini parte dalla realtà materiale e la esamina analiticamente. Coarelli, per sua stessa ammissione, adopera solo le fonti scritte mentre la realtà materiale è discriminata oppure usata a piacimento.
La forza dell’archeologia stratigrafica è, però, proprio questa: offre una visione complessa e spesso più dettagliata della realtà rispetto alle fonti testuali. Quasi un’altra storia. Ed è per questo che non può essere ignorata o ridotta a una scenografia.
Dopo sterri, scavi, studi e tanti libri, possiamo dire che:
- La prima casa di Ottaviano è in parte ancora conservata in quella che visitiamo oggi sul Palatino, specialmente il settore in blocchi di opera quadrata di tufo verso l’area sacra di Romolo e le Capanne. Fate attenzione perché i restauri novecenteschi hanno ricostruito i blocchi di tufo, ma li riconoscerete perché sono fatti a frammenti.
- In questa prima casa, che era di Ortensio Ortalo, Ottaviano sarebbe entrato subito. Un signorotto della nobiltà romana che con l’eredità dello zio Cesare morto ammazzato poteva ambire ad eguagliare la vecchia guardia della società romana di età repubblicana. Ciò accadde tra il 42 e il 36 aC

- La seconda casa è un ampliamento della prima. Di questo ampliamento, forse avvenuto in due tempi, si conservano resti consistenti. La casa di Augusto che visitiamo oggi ve li mostra in tutta la loro demolita bellezza: si tratta della sala con festoni dipinti, la sala delle maschere, la sala delle prospettive, il cubicolo, l’oecus, la rampa e anche il così detto “studiolo” al piano di sopra. I muri sono in parte quelli della vecchia casa di Ortalo, e così anche i pavimenti in finissimo mosaico, ma le pitture no, sono tutte degli anni 40 del I secolo aC. Questa fase si può datare intorno al 36 aC: prima del 36 per Carandini, dopo il 36 per Coarelli.



- Questa enorme casa, della quale vediamo comunque solo una parte, perché il resto giace sotto il successivo Palazzo Flavio, viene a un certo punto abbattuta. Le terre di riempimento sono state rimosse molti anni fa, mentre una piccola parte di stratificazione intatta è stata in parte scavata da Jacopi e Tedone e in parte la vedete nella Rampa, quella con il soffitto a cassettoni dipinto e le pareti in un secondo stile iniziale magnificamente “augusteo”. Questa fase si data tra il 36 e il 28 aC; Carandini la data così, Coarelli la posticipa a “qualche anno dopo il 36”, quindi tra il 34 e il 28. Ill termine è comunque per entrambi l’inaugurazione del tempo di Apollo attestato dalle fonti letterarie.

- Tracce di questa rasatura le vedete bene nel percorso di visita. Intanto alzando la testa: quel tetto sopra di voi è circa la quota del pavimento del piano terra della casa di Augusto definitiva. Camminando lungo la passerella, noterete a sinistra i pavimenti, una volta di marmo, completamente spogli: è la stessa dinamica di recupero che vediamo alla Domus Aurea: il marmo non si butta. A destra invece, laddove un tempo c’erano le porte ed entrava la luce, ora vedete un “muraglione”: è la possente fondazione del soprastante tempio di Apollo, casa 3, l’ultima. Capite che o luna o l’altra: se c’è quella fondazione non può esistere la casa con i pavimenti di marmo.


- Ancora nel percorso di visita uscite dal primo peristilio seguendo la passerella e vi troverete all’aperto. Quello davanti a voi è quel che resta del vecchio peristilio quadrangolare, infatti vi si affacciano anche le stanze protette dal vetro. Avevano un giardinetto con fontane davanti, come tutte le case romane.
- Ancora da quella parte noterete un muro incrostato di conchiglie dietro a una parete di metallo: è una delle preesistenze delle case repubblicane che Ottaviano a rimodernato. Era una fontana di quelle che a Pompei ne trovate in ogni casa, si chiama Ninfeo e riproduce il luogo natale delle ninfe delle acque.
- Il giardinetto però è occupato da un grande pilastro. Tecnicamente sarebbe una porzione di fondazione del soprastante Portico delle Danaidi, un tempo gettata nel terrapieno. La terra è stata rimossa ed ecco perché vedete solo quelle immense fondazioni.

- Ora proseguite nel percorso di visita ed entrate nel resto della casa: c’è il cubicolo, c’è il soggiorno (oecus), c’è una magnifica rampa (quella con la stratificazione intatta) che troverete chiusa: sulla parete di fondo una fondazione in cassaforma vi dice che a un certo punto è stata messa fuori uso. Era la rampa della casa 2, quella grandissima, e collegava al piano superiore. Non aveva invece a che fare con il tempio di Apollo, perché le quote non tornano.


- Ammirate le pitture di queste stanze: finissimo secondo stile iniziale, con una combinazione di elementi tipicamente augustea. Siamo prima del 36, in questo caso sono esempi databili stratigraficamente.
- Ultima stanza di questa casa demolita, che però noi visitiamo, è al piano superiore. Con una possente scala di ferro potete salire al così detto “studiolo”. Il nome deriva da Suetonio che ci racconta che Augusto per 40 anni avrebbe dormito nello stesso studiolo. Per un periodo circolava la voce che fosse questo, ma, per quanto magnifico, non può esserlo. La vedete anche voi quella immane massa cementizia che lo circonda? Ecco, ora guardate a sinistra e noterete che il piano di spiccato del tempio di Apollo è sopra le vostre teste. Non c’è niente da fare: quando Ottaviano passa al progetto della casa 3 tutto quello che di magnifico avete visitato finora viene cancellato. Sparisce alla vista.



E infine la casa “di Livia”
Tutto ciò premesso, quindi, come dobbiamo considerare la casa detta di Livia? Sicuramente si tratta di una vecchia casa repubblicana, secondo le fonti, e secondo la lettura di Carandini, Coarelli e altri, appartenuta a Quinto Lutazio Catulo, console nel 78 aC e figlio del vincitore dei Cimbri nel 101 aC.
È stato soprattutto Carettoni a scavarla negli anni ‘50 , lasciandoci delle planimetrie generali, pubblicate ad esempio in Palatium da Coarelli, insieme alla pianta di un’altra casa situata accanto alla precedente.


Augusto avrebbe occupato questa casa e l’avrebbe inclusa nel suo progetto finale, quello che comprendeva il grande santuario di Apollo. Questa casa oggi è nota con il nome di “casa di Livia” e da qualche parte si insinua che fosse l’appartamento dell’imperatrice.
Ecco, questo è falso. Non è dimostrabile e non ha culturalmente senso nella tarda repubblica. Livia non era Sissi. Il nome deriva dalla fistula con impresso il suo nome, trovata nell’Ottocento nei pressi della casa che chiamiamo, appunto, “di Livia”. Un approccio storico invita alla prudenza. Quella casa, che era appartenuta alla famiglia di Catulo, viene inclusa nel progetto della casa di Augusto definitiva.
Quindi era Casa di Augusto. L’ultima, quella che oggi percepiamo a malapena perché i riusi post antichi dell’area l’hanno smantellata. Non a caso si conserva solo la porzione seminterrata, con le meravigliose pitture in secondo stile maturo.
Livia ne diventa legittima proprietaria dopo la morte del marito. In quella circostanza avrà restaurato i tubi dell’acqua che ovviamente le appartenevano, ecco perché c’è il suo nome sui tubi. Ma più che dire che quella casa fosse il suo appartamento personale, sarebbe meglio dire che la fistula ci offre un terminus post quem, cioè un termine temporale dopo il quale porre la riparazione del sistema idrico.
Nel seminterrato della casa, come d’uso in età repubblicana, c’era la sala da pranzo estiva, per stare freschi e al riparo dalla calura. Oggi visitiamo il settore di rappresentanza della casa, con le tre sale che compongono il tablinum, la sala del triclinio a destra e nei pressi si intravede la culina (cucina). Nella sala centrale è affissa la fistula in piombo che ha dato il nome all’edificio.

L’aspetto rilevante di queste pitture sontuose è che costituiscono l’atto finale della storia immobiliare. Sarebbero come la mano di vernice per “rinfrescare” una vecchia casa avuta in eredità. E sapendo ora tutta la storia stratigrafica del complesso, c’è poco da fare, queste pitture sono posteriori al 36 aC, e comprese entro il 28 aC.
Lo stile, pure, ci aiuta a vedere le differenze con le pitture della casa rasa al suolo, che oggi visitiamo. Queste sono più morbide, più sovrabbondanti di dettagli, più “mature”.

Una dedica
Spero di essere riuscita a portarvi un po’ più all’interno del mestiere dell’archeologo e di avervi aiutato a orientarvi nei meandri del Palatino.
Ho in mente di leggere per voi questi articoli, datemi tempo e li trasformerò in un podcast.
Voglio concludere con la parte più importante, esprimere la mia gratitudine a voi, community, che quotidianamente mi supportate con la vostra presenza e le vostre donazioni.
Questo articolo è dedicato di tutto cuore a Selenia Morgillo, che da tempo mi stimola a rendere pubbliche le mie conoscenze scientifiche (e mi fornisce anche un sacco di foto), e poi a Linda Garofano, Claudia Giustizieri e Francesca Rossi Pantoja. Con loro ho esplorato di recente il Palatino, tornando così a studiare questo tema. Grazie a loro, ne potete beneficiare tutti.
E la lista dei donatori e sostenitori di questo blog si allunga sempre di più. Grazie di cuore.
Alla prossima, Valeria
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Grazie a te Valeria già ascoltarti dal vivo è una meraviglia poi lo scrivere semplice mi aiuta a capire un po’ di più a leggere i muri a presto. Vincenzo
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Cara Valeria, il commento scritto in margine al testo non me lo fanno inviare, quindi, scrivo qui: ottima esposizione, sorretta da dati concreti, su un’area complessa per il Palatino, per Roma, per l’Impero! Complimenti!
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Sono contenta, grazie !
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