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“Patrimonium Appiae: depositi emersi”. La mostra sulla via Appia antica: la mia recensione.

Da quanto tempo non mi capitava di immergermi in una bella mostra di Archeologia! Questa, infatti, è la sensazione che ho provato visitando la mostra “Patrimonium Appiae: depositi emersi” allestita nel Casale di Santa Maria Nova al quinto miglio della via Appia.

Io sono una archeologa cresciuta a pane e Storie dalla terra, ho scavato al Palatino con Andrea Carandini e i suoi bravissimi allievi e ho imparato a leggere i paesaggi da Daniele Manacorda. Ciò fa di me un’archeologa che basa le proprie ricerche sui concetti di contesto e stratigrafia. E non saprei fare diversamente.

Quel che ho apprezzato più di ogni altra cosa della mostra “Patrimonium Appiae” è proprio la priorità data ai contesti e ai paesaggi dell’Appia, in un’ottica appunto contestuale che finalmente pone al centro dell’attenzione la cultura materiale e le sue relazioni con l’uomo e con l’ambiente, nel tempo, cioè nella diacronia. Già, perchè la diacronia è la naturale conseguenza degli studi stratigrafici, cioè di quell’approccio che mette in fila le testimonianze materiali per cercare di tracciare l’evoluzione di uno spazio nel tempo, tipologicamente, tecnologicamente e quindi culturalmente.

Anche in questo caso mi servirò della mia lista di 10 punti per valutare la mostra, sperando che in questo modo possiate trovare la mia recensione chiara e utile. Resta il fatto, come dico sempre, che le mostre vanno sempre visitate, magari in modo più consapevole, ma nessuna recensione altrui dovrà farvi desistere dal guardare e valutare con i vostri occhi e con i vostri sensi un allestimento con il suo carico di stimoli e significati. Semmai, noi siamo qui per supportare, con una visione scientifica della ricerca, la vostra curiosità.

  1. Il Tema: far emergere il racconto dei paesaggi dell’Appia dai depositi. Un’idea vincente.

La mostra si intitola “Patrimonium Appiae: depositi emersi” e di fatto tale è il tema dell’esposizione. La formula latina, apparentemente criptica, a me ha messo curiosità e per tutto il tempo ho cercato di capire se a un certo punto sarebbe stata spiegata. La risposta è sì: grazie a un bellissimo ed esaustivo video multimediale, studiato per raccontare il contesto dell’Appia nel tempo, si apprende che tale formula risale all’età medievale, quando nel casale di Santa Maria Nova si installano i monaci olivetani facenti riferimento appunto a Santa Maria Nova al Foro Romano e avendo qui sull’Appia una parte del loro cospicuo “patrimonium”. Dunque ho trovato anche piuttosto accattivante l’idea che si volesse (forse) indurre il visitatore ad incuriosirsi rispetto a questa formula latina, mettendolo comunque in condizione di scoprirne da solo origine e significato.

Depositi emersi, poi, è quell’espressione a completamento della formula, che fornisce subito il quadro in cui si inserisce l’esposizione. I reperti sono stati selezionati e tirati fuori dai depositi della Soprintendenza e a loro si affida la narrazione della storia del paesaggio dell’Appia e delle vicine Latina e Ardeatina. Parlo soprattutto dell’Appia perché dal 312 a.C ha assunto un ruolo di primo piano rispetto alle altre due strade, diventando non a caso la “regina Viarum” che conosciamo.

Il mio voto per il tema è 5.

2. Ambiente: suggestivo, invitante, coinvolgente.

La mostra è allestito in un edificio antico. E non un edificio qualunque, un edificio pluristratificato. Quello che oggi è definito “casale” di S.Maria Nova era in realtà una cisterna in mattoni di età imperiale, successivamente riadattata a torretta forse già all’epoca della guerra greco-gotica nel VI secolo, in seguito inglobata all’interno di una residenza medievale con varie fasi, tra cui quella di XIII-XIV secolo connotata dalla inconfondibile opera ‘saracinesca’ in blocchetti rettangolari di tufo di recupero. Il complesso medievale, dotato poi di un terreno circostante nel quale erano piantate essenze medicamentose – riprodotte oggi – nel corso del tempo diventa struttura agricola e in ultimo residenza di un cineasta, che l’avrebbe abitata fino alla cessione allo Stato Italiano.

Ho lavorato tanti anni come operatore didattico in questi luoghi, ricordo addirittura di aver inaugurato, insieme ad altre colleghe, la stagione di apertura straordinaria del sito archeologico appena restaurato, con gruppi fino a 50 persone (giuro) che dalla villa dei Quintili giù a valle ho accompagnato fino al casale di S.Maria Nova. Non potrò mai dimenticare le forti emozioni provate da tutti e specialmente dai residenti del vicino quartiere “Statuario”, che mi raccontavano come da ragazzini, negli anni Sessanta, si arrampicassero per la tenuta fino a raggiungere la recinzione attorno al casale, perché si diceva che a casa del cineasta fosse ospitata Brigitte Bardeaux (e che girasse nuda per casa…).

L’ambiente in cui si svolge la mostra, quindi, per me è ricco di ricordi e di significati, personali e professionali, che poi per me è la stessa cosa. E ammetto che passeggiare tra le stanze del casale ora che è tutto agibile (ai tempi delle mie visite guidate non lo era) è stato speciale. E l’ambiente, ai fini della mostra, è super suggestivo, perché l’antico richiama se stesso e tutte le epoche rappresentate dai reperti in mostra, quasi in un dialogo continuo. Così, mentre osservi i pezzi e leggi le didascalie, alzi gli occhi e ti trovi di fronte uno stupendo muro a scacchi medievale e capisci di essere dentro alla torre con evidenti tracce di vita residenziale attorno a te. S T U P E N D O !

Il mio voto all’ambiente è 5.

3. Pannelli: piacevoli, chiari e ben leggibili (quasi tutti)

Posso dire: finalmente dei bei pannelli ! Sì, è così, i pannelli di questa mostra sono belli. E sono belli perché sono ben leggibili, chiari e facili da capire, almeno quasi tutti. La comunicazione affidata ai pannelli è organica e l’ho capito dal primo pannello che si incontra all’interno della sala introduttiva. È una grande tavola che illustra l’area interessata dalla mostra, e cioè il tracciato delle vie Ardeatina, Appia e Latina, ed il relativo paesaggio suburbano entro i confini del Parco Archeologico. Ogni contesto rappresentato in mostra è contrassegnato da un numero e ciascuna strada da un colore, su una base topografica che è il classico e ben riconoscibile Google Map, in versione satellitare, scelto appositamente per aiutare il visitatore a collegare i numeri ai riferimenti oggi presenti nel tessuto urbano. Top! Inoltre, ogni numero con uno stralcio della mappa è ripetuto per ogni contesto, così come il colore relativo alla strada di riferimento. Insomma, finalmente una buona costruzione organica della comunicazione, che non fa perdere il filo!

La scelta cromatica, poi, per me è azzeccatissima. Io che ho imparato (e sudato parecchie camicie) al fianco di Maura Medri a disegnare e a trasporre per l’editing centinaia di planimetrie e prospetti, so che la scelta cromatica deve rispondere a tante esigenze, non ultima quella della piacevolezza visiva. Le piante brutte sono quanto di più inutile l’archeologia possa produrre! In questa mostra, invece, i colori scelti sono tenui (un lilla spento, un ocra e un verde salvia) e con il grigio della mappa Google si sposano alla perfezione. Top, lo ripeto.

Andando nel dettaglio, i pannelli sono di tre tipi: c’è un pannello topografico grande che localizza i contesti rispetto alla strada di provenienza; poi per ogni contesto c’è un pannello introduttivo, che riporta lo stralcio della mappa per la localizzazione e una breve storia dei ritrovamenti; e in ultimo c’è il pannello con la didascalia dei pezzi. Mentre i primi due sono perfettamente leggibili, agili da leggere e facili da capire, i pannelli delle didascalie sono a mio avviso un pò faticosi. Sono molto piccoli, fondo nero e testo bianco, corpo piccolo e molto densi di testo e informazioni. La presenza del pannello introduttivo con le informazioni essenziali, talvolta accompagnato da vedute o fotografie storiche, offre già di suo una buona dose di dati, quindi il piccolo pannello delle didascalie mi ha dato l’idea di essere stato pensato per i più esperti o i più curiosi, insomma per coloro che vogliono davvero approfondire fino al dettaglio. Mi è sembrato un fatto poco ‘grave’ proprio perché non sono i soli e, anzi, la comunicazione in un certo senso viaggia su più livelli. E ci può stare.

Il mio voto per i pannelli è 4.

Un esempio della pannellistica: colore lilla per la Via Latina, pannello introduttivo, mappa e foto di dettaglio.

4. Relazioni: un intreccio, anzi, un abbraccio!

Tra i pezzi esposti, spazio espositivo e pannelli, io, da visitatrice, mi sono sentita bene, accolta, accompagnata, quasi abbracciata! Muoversi tra le sale del Casale antico è già di per sé molto bello, ma poterlo fare avendo a disposizione tanti reperti inediti da osservare e capire, è ancora più bello. Ho colto dalla prima sala lo sforzo e l’investimento dei curatori nel costruire una comunicazione coinvolgente, dove ogni elemento richiamava gli altri da una sala all’altra. Dunque sul tema delle relazioni, nulla da eccepire, anzi, un grande ringraziamento per aver cercato di andare incontro ai visitatori volendoli far capire senza difficoltà le informazioni proposte.

Il mio voto alle relazioni è 5.

5. Il racconto: storie di paesaggi attraverso i contesti, di contesti attraverso i reperti

Come ho detto all’inizio, questa mostra fa archeologia. Racconta cosa può dire l’archeologia contestuale e come. Non tutti i 20 contesti rappresentati sono stati scavati stratigraficamente, va bene, però sicuramente l’ottica di presentarli e raccontarli come parte di un più ampio contesto, che è il paesaggio delle vie Appia Latina e Ardeatina, è stratigrafica.

Il racconto segue un filo chiaro e semplice. Ci sono tre strade, ci sono 20 contesti e tutto ricade nei confini del Parco Archeologico dell’Appia. L’intenzione è raccontare questo territorio dal punto di vista archeologico, nel tempo, attraverso la selezione di reperti finora (quasi) mai usciti dai depositi della Soprintendenza. Ciò si apprende nella sala introduttiva e si segue lungo tutto il percorso, grazie ad un sistema di informazioni correlate tra loro che non fanno mai perdere di vista dove si sta.

Essendo un racconto che parte dalla cultura materiale, è necessario devolvere una certa attenzione all’osservazione dei vari pezzi e alla loro comprensione. In questo senso, forse l’analisi di dettaglio di ciascun elemento riesce meglio a chi è già esperto, ma è ben possibile anche comprenderne il senso globale in quanto documenti materiali di un passato collocato nello spazio e nel tempo.

Ad accrescere la funzione narrativa dei reperti, c’è un video multimediale realizzato da Katatexilus (come sempre dico: i migliori su piazza) che racconta i paesaggio dell’Appia nel tempo. Quando dico paesaggio è chiaro a tutti che non sto parlando solo di quello naturale ma del prodotto dell’incontro tra uomo e natura? In ogni caso, guardando il video, si comprende meglio l’ambito nel quale si è mossa l’attività umana che ha prodotto quei reperti messi in mostra. Già, perché non bisogna mai dimenticare che dietro ai reperti e dietro agli edifici che li contenevano, come anche dietro a un paesaggio modellato nei secoli c’è l’uomo. E la prospettiva diacronica assicura che non si parli solo dell’antichità ma di tutte le fasi rilevanti nella storia del paesaggio dell’Appia, quindi anche l’età medievale e il contemporaneo. E sul contemporaneo, infine, c’è una chicca che mi ha commosso e che sono sicura commuoverà anche voi…

Il mio voto al racconto non può che essere un bel 5.

6. Strategia: dire poco, dirlo bene e con coerenza.

Quel che ho apprezzato dell’allestimento, e che includo nella strategia, è la scelta di dire poco e di dirlo facile. Con poco non intendo certo dire che le informazioni siano insufficienti, anzi, voglio invece dire che è il dosaggio dell’informazione ad essere secondo me la chiave vincente dell’allestimento. Invece di bombardare i visitatori con troppe notizie (e si sa che le mostre di archeologia possono essere anche devastanti) oppure con ‘nozioni’ (peggio mi sento), mi pare si sia scelto di dare una sintesi organica dei temi, rimandando poi al cospicuo catalogo per ogni altro approfondimento (catalogo: al punto 9).

Ho percepito la netta sensazione che attraverso le sale della mostra ci si possa fare un’idea di cosa sia accaduto lungo le strade oggi incluse nel Parco Archeologico dell’Appia durante gli scavi di epoca più recente, e questo può essere un buon un input a tornare in quei luoghi e a rivedere quei paesaggi. Inoltre, le diverse categorie di reperti presenti, che spaziano dai frammenti architettonici agli arredi, dalla ceramica ai corredi funerari, dalle sepolture agli edifici (in ricostruzione), fanno capire quante e quali siano le diverse fonti documentarie con le quali oggi si misura (o si dovrebbe misurare) l’archeologia dei paesaggi attraverso l’analisi contestuale dei depositi.

Il mio voto per la strategia è 5.

7. Engagement: l’archeologia non parla da sé ma con un mix di strumenti…sì!

Esatto, l’archeologia non parla da sé. I reperti sono muti se non li aiutiamo a parlare. E come sappiamo, ogni epoca li fa parlare come sa, e di questo occorre essere consapevoli.

Se, però, si cerca di mixare gli strumenti a disposizione per aiutare il pubblico a sentirsi parte della narrazione, a sentirsi davvero coinvolto, forse la cosa può funzionare meglio. Il mio coinvolgimento rispetto alla mostra nasce, per la verità, da un mio interesse specifico per il tema, dunque non è stato difficile sentirmi ingaggiata.

Guardandola però con gli occhi di un visitatore un pò più estraneo ai fatti, ho constatato che rimane pur sempre una mostra di archeologia, fatta di frammenti e pezzi sparsi e questo potrebbe essere ostico. Ma devo dire che un pò l’ambiente (il casale antico), un pò il video multimediale a metà percorso, un pò l’allestimento di arte contemporanea (Art Crossing) sia all’interno che all’esterno, che offre quel sano cortocircuito sensoriale, e un pò anche il collegamento con l’Antiquarium, situato a valle, rendono la partecipazione alla mostra molto dinamica.

Nell’Antiquarium, infatti, sono custoditi i gioielli di epoca tardoantica (IV-V secolo), tanto rari quanto preziosi, trovati addosso a una donna precipitata da una torre. La storia la potrete conoscere sul posto, anzi, addirittura, la sua rilettura… Ma quel che trovo intelligente è che di necessità si fa virtù: per andare a vedere i gioielli, si deve attraversare la villa dei Quintili, che merita tutta la fatica della scarpinata, specialmente se la visiterete dopo aver guardato il video multimediale in mostra, che finalmente, per la prima volta (!!!) mostra il complesso della villa in 3D! Una figata.

Tutto ciò considerato, il mio voto per l’engagement è 4.

8. Godimento: una bella occasione

Lo ribadisco, una come me per una mostra del genere farebbe follie e quindi è più che ovvio provare quel sano godimento che deriva dal vedere i pezzi messi bene in vetrina, con un senso topografico e cronologico che li supporta, fotografie storiche che mi aiutano a vedere quel che era e non è più, vocaboli quali “contesto” e “stratificazione”, mappe e linee del tempo… Ecco, questo mi piace, assai. So benissimo che il godimento è personale e dipende dalla sensibilità di ciascuno, quindi non vi voglio convincere del fatto che toccherete il cielo con un dito, però io l’ho toccato, ecco!

Il mio voto per il godimento è 5, ma va!

Il mio concetto di godimento ad una mostra: spazio antico, per la precisione medievale, con una decorazione a scacchi pazzesca; pezzi esposti in modo chiaro: il gruppo marino poggia su un basamento lilla, cioè viene dalla via Latina. Ed è facile da ricordare! Guardo fuori dalle finestre del casale e vedo l’Appia. Tutto concorre al piacere dei sensi!

9. Catalogo: seicentotrentapagine eppure leggerissimo!

Non volevo anticiparlo nei punti precedenti, ma gran parte della riuscita di questa mostra sta, per me, nella gestione del catalogo. Dico nella gestione perché non solo esiste e consta di 630 pagine, con saggi introduttivi ai contesti e l’analisi di dettaglio di ciascuno dei 20 contesti esposti. Ma i curatori hanno pensato di renderlo scaricabile gratuitamente sul sito del parco Archeologico dell’Appia antica e questo fa di loro dei curatori lungimiranti.

Ecco, questo per me è il vero pro di questa mostra. Il catalogo offre una panoramica ampia e dettagliata, oltre che aggiornata, su quanto sia oggi a disposizione della nostra conoscenza in merito ai contesti provenienti dal Parco archeologico dell’Appia. Lo sforzo dietro a questa pubblicazione posso immaginarlo e non deve essere stato piccolo. Ma pensarlo, farlo uscire nei tempi e renderlo scaricabile e a disposizione DI TUTTI va a beneficio non solo dell’istituzione ma soprattutto della comunità, sia quella dei professionisti che ne faranno sicuramente uso per aggiornarsi, sia degli interessati che potranno soddisfare la propria curiosità. Questa è valorizzazione democratica, questo è il futuro.

Inutile dire che il mio voto per il catalogo è 5.

10. Missione: più che compiuta!

Avrete capito dai punti precedenti che ho un giudizio più che positivo su questa mostra. Immagino che altri non saranno d’accordo, ma da archeologa stratigrafa penso che sia una mostra importante e della quale c’era bisogno, per dare ai tanti conoscitori e appassionati dell’Appia una chiave di lettura scientificamente solida e basta sui principi della moderna archeologia dei paesaggi, che, come dice Manacorda nel suo ultimo libro “Roma: il racconto di due città” (edito da Carocci) “è l’erede della topografia storica”.

Per me ogni mostra di archeologia che parli di contesti, di stratigrafia e quindi di sviluppo di un sito nel tempo merita il plauso di tutta la comunità. E questa mostra, devo dire anche in punta di piedi, con semplicità e umiltà (di materiali e di allestimenti) riesce a far passare un messaggio molto importante in un’epoca in cui ancora non si è capito cosa facciano esattamente gli archeologi (su questo ci torneremo).

Ecco: gli archeologi, oggi, raccontano i paesaggi nel loro evolversi nel tempo, applicando metodi scientifici per cercare di ricostruire la sequenza delle fasi testimoniata dalle fonti materiali. E quando queste fonti sono il risultato di scavi di varia natura, non necessariamente stratigrafici, si cerca comunque di affrontarli con le ottiche e i metodi più avanzati a disposizione nel momento in cui vengono presi in esame.

Usciamo quindi, finalmente, per un pò, dal mantra OGGETTO BELLO, ed entriamo più nel vivo del valore storico e documentario che ogni reperto porta con sé nell’ottica non di bastare a se stesso, ma di raccontare la storia degli uomini e donne che ne hanno curato la produzione, l’uso, l’abbandono, il riciclo e la distruzione. Questa è per me l’archeologia di cui siamo capaci oggi e di cui manca, forse troppo, la parola nei musei.

Fortunatamente, la mostra “Patrimonio Appiae: depositi emersi” parla di oggetti, cioè di reperti, e dell’umanità che c’è dietro. Ma anche davanti, sopra e sotto a tutelarla e a garantirne la massima diffusione al pubblico. Concludo con il mio voto alla missione, che è 5, per cui questa mostra totalizza 48 su 50 punti. Niente male!


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1 pensiero su ““Patrimonium Appiae: depositi emersi”. La mostra sulla via Appia antica: la mia recensione.”

  1. Valeria, ne abbiamo parlato al ristorante: archeologia economica. Ne ho parlato con il prof. Tronti di Roma 3 e vorrei comunicarti la corrispondenza che c’è stata. Hai poi ritrovata l’erba antieroica usata dai padri Olivetani per ubbidire al voto di castità?

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