Che cos’è l’archeologia?

A questa domanda non ho sempre saputo rispondere con disinvoltura. Posso dire senza esagerare che sia la domanda più difficile alla quale ho dovuto rispondere nella mia carriera di studentessa di archeologia, e alla quale provo continuamente a rispondere nella mia attuale attività di ricerca.

Secondo me, infatti, è solo apparentemente una domanda facile. Voglio raccontarvi la storia di questa domanda nell’ambito del mio percorso, sperando che gli spunti che ne verranno fuori possano esservi di ispirazione, così come è stato per me.

Voglio cominciare da un Amarcord.

“Che cos’è l’archeologia?” è stata la prima domanda del mio primo esame di Metodologia della Ricerca Archeologica all’università. Il test era scritto. Lo spazio a disposizione per rispondere alla domanda era di una cartella intera. Scrittura a mano, niente PC. Ero ancora acerba allora, non avevo frequentato molti scavi, non avevo letto molti libri di archeologia e, soprattutto, lavoravo, ho sempre lavorato mentre studiavo. Sarà stato il 2001 o giù di lì. L’esame andò decentemente, ma non fu eccellente. Mi ripresi poi al colloquio sfoggiando la mia parlantina senza confini. Così, da quel giorno in cui risposi a quella domanda sentendomi inadeguata, ho preso un impegno: avrei provato a continuare a rispondere a quella domanda per tutta la mia vita di archeologa.

Avevo la netta sensazione che fosse una domanda strategica.

Al professore, la riposta sarebbe servita per farsi subito un’idea dello studente che l’aveva compilata: implicava una sintesi del programma ma anche uno schema mentale che ordinasse i tanti stimoli ricevuti a lezione e dalla lettura della bibliografia; e poi: quali aspetti mettere in risalto? Parlare dei nomi, dei pensieri o di dettagli? Un’altra faccia poteva essere quella di lanciare un amo allo studente: se ti “acchiappa” forse sei nel posto giusto e stai percorrendo la strada giusta. Ma se non ti senti coinvolto…potrai mai esserlo in futuro? Non ricordo cosa risposi a quella prima domanda del primo esame di Metodologia.

Ricordo però, molto bene, tante altre risposte…

…Quelle che in dieci anni di sessioni di esami ho letto e in parte corretto da assistente alla cattedra. E ricordo che mi appassionava sempre tanto leggerle, quelle risposte. Magari conoscevo chi le aveva compilate, per le varie attività della cattedra, ma anche se non ne conoscevo gli autori, riuscivo ad entrare nelle loro teste, ad afferrarne i pensieri e a coglierne la personalità. Insomma, ogni sessione d’esame che passava mi confermava con sempre maggior forza il potere nascosto di quella domanda. Chi sapeva il fatto suo, ci si giocava tutto. Chi non aveva voglia di proseguire in quel campo, dava riposte senza passione. Chi non aveva studiato, lasciava in bianco, perdendo molti punti nella valutazione. Ed era una domanda che non cambiava mai. Tutti sapevano che l’avrebbero trovata al test scritto, proprio perché ci si augurava che gli studenti scegliessero di investirci quasi fosse un biglietto da visita.

E allora: che cos’è l’archeologia?

Comincerò col dire che l’archeologia non è (solo) scavare, tantomeno col pennellino (tornerò con molto piacere sull’argomento, più in là). Si dice che l’archeologia sia una disciplina, ma non tutti concordano. Lo è nella misura in cui ricorre a metodi scientifici per costruire la base di dati sui quali poi fonda la ricostruzione del passato, o del contesto che indaga, attraverso l’interpretazione storica dell’evidenza materiale, scartando via via, nel processo ricostruttivo, le ipotesi meno verosimili a favore di quelle più attendibili.

Già, perché la ricerca archeologica non conduce alla verità, non è questo il suo obiettivo.

Per la stessa ragione non credo che esistano un passato ‘corretto’, un’ipotesi ‘corretta’ o una ricostruzione ‘corretta’. Ho letto spesso questo termine nei report scientifici e in tanta letteratura di settore e mi ha sempre messo in allarme. Corretto, rispetto a cosa? Considerando che parliamo di un passato, o comunque di un contesto storico, nel quale non c’eravamo e non conosciamo la reale versione dei fatti, l’uso della parola ‘corretto’ mi pone immediatamente di fronte ad un’ottica vagamente arrogante e ad una certezza che non può essere data. Verosimile sì, attendibile sì. Corretto no. Ho sentito la necessità di precisarlo perché fa molta differenza nell’atteggiamento che si ha verso la scienza e verso la ricostruzione storica a partire dal dato materiale, che è parte integrante del mestiere dell’archeologo. E ha molto a che vedere con il concetto di Archeologia. Prudente è essere certi del proprio metodo e della propria sapienza. Saggio è essere consapevoli che quel che conta davvero è la base dei dati costruiti con metodo scientifico, a beneficio della comunità. Le interpretazioni, invece, possono essere molteplici e possono migliorare nel tempo.

L’archeologia quindi non è una disciplina, nel senso che è molto di più. È una lente attraverso la quale guardare il mondo esterno, sia passato che presente. E mi piace rievocare il pensiero dell’archeologo Daniele Manacorda perché ha saputo dirlo con le parole più belle: nulla nasce archeologico, lo diventa se decidiamo di osservarlo attraverso le lenti dell’archeologia. Non si tratta tanto di antichi vasi, di cose vecchie, lontane nel tempo e nello spazio. La distanza temporale tra noi e ciò che analizziamo non è rilevante.

Si può affrontare archeologicamente il nostro tempo?

E perché no? Ad esempio si può indagare con metodo archeologico un campo di detenzione militare delle due guerre mondiali. Lo sta facendo da qualche anno l’archeologo Giuliano De Felice al Campo 65 in Puglia con la sua équipe universitaria. La chiave sta nell’approccio, nelle ottiche e nei metodi che mettiamo in campo per analizzare il nostro oggetto di ricerca, che potrà essere un villaggio, un cimitero, una strada, un edificio, un complesso di edifici, una montagna con le sue tracce di vita contadina, ma anche un campo di prigionia di qualche decennio fa, abbandonato eppure ben evidente nel paesaggio. Ecco perché nulla nasce archeologico, ma può diventarlo.

Fonte: sito web Edipuglia

Tutti gli abitanti della Terra hanno lasciato, lasciano e lasceranno tracce della loro esistenza.

Le lasceranno sul suolo, nel sottosuolo, nell’ambiente, nei luoghi che hanno abitato e frequentato. Tali tracce potranno essere lasciate intenzionalmente o prodursi involontariamente. E potranno essere ritrovate a distanza di uno, cento o mille anni. E se a ritrovarle e a indagarle saranno gli archeologi, non dobbiamo dimenticare che il modo in cui saranno esaminate potrà variare in base all’epoca e alla latitudine. Perché l’archeologia, con la sua filosofia operativa e i suoi metodi, è inevitabilmente figlia del suo tempo. Idealmente, più scorre il tempo e più si affinano le tecnologie che supportano la ricerca, ma di fatto, sono i cervelli, i pensieri, il sentire comune e le necessità del momento a fare la differenza. Gli aspetti tecnologici, di per sé, risolvono poco, perché tutto dipende dalle domande, teoriche e culturali, che ogni generazione si pone. Lì si gioca il vero cambiamento.

Era il 1784, in Virginia.

Thomas Jefferson (prima di diventare il terzo Presidente degli Stati Uniti d’America), aveva scavato, in un certo senso ‘a strati’, alcuni “mounds” contenuti nelle sua proprietà. Li tagliò, scavando una trincea, e con un accurato lavoro di rimozione degli strati poté arrivare a comprenderne il senso (tumuli funerari), anche se non gli riuscì di afferrare chi li avesse realizzati, perché rifiutava il concetto che potessero essere stati i nativi americani. A Roma durante il Ventennio si praticava lo sterro in quanto lo scavo stratigrafico era considerato lento e poco produttivo (tralasciamo per ora il discorso ideologico). Ciò per dire che si può senz’altro seguire un progresso nell’approccio al dato materiale e nell’affinamento dei metodi di indagine, ma tutto va sempre letto nel più vasto contesto globale per non rischiare di avere una visione parziale e semplicemente “evoluzionistica” o geograficocentrica del tema.

Scavo di un “mound” americano (Da Renfrew, Bahn, Archeologia, 1995, scheda 1.3)

La parola agli archeologi.

Voglio concludere questa prima riflessione sull’argomento, con le parole di alcuni archeologi che considero dei veri e propri pilastri del pensiero e del metodo archeologico. Il primo è Vere Gordon Childe (1982-1957), archeologo australiano specialista in archeologia preistorica, che descrive così l’archeologia nelle prime pagine di uno dei suoi lavori:

L’archeologia studia i mutamenti provocati dall’azione dell’uomo nel mondo materiale – naturalmente nella misura in cui i mutamenti permangono. La documentazione archeologica consiste nei resti fossili dell’attività umana; ed è compito dell’archeologo ricostruire questa attività, per risalire al pensiero da essa espresso. Nel fare ciò l’archeologo diventa uno storico“*.

Un libro piccolo ma gigante!

Per completare il quadro, voglio anche citare due grandissimi altri nomi dell’archeologia preistorica, Colin Renfrew e Paul Bahn, autori di un meraviglioso e travolgente viaggio nelle tante archeologie del pianeta, nel loro evolversi attraverso i secoli. Nell’introduzione, dove si spiegano natura e obiettivi dell’archeologia, scrivono:

L’archeologia è in parte la scoperta dei tesori del passato, in parte il lavoro meticoloso di un analista scientifico, in parte un esercizio di immaginazione creativa. È faticare sotto il sole di uno scavo nei deserti dell’Iraq, è lavorare insieme agli Eschimesi tra le nevi dell’Alaska, è immergersi al largo della costa della Florida per raggiungere il relitto di una nave spagnola ed è indagare le fognature della York romana. Ma è anche il cosciente sforzo interpretativo attraverso il quale si arriva a comprendere che cosa tutto ciò significhi nella storia dell’umanità“.

Capite? La stessa dignità di traccia del passato la meritano una preziosa scultura in marmo e una fognatura di una città di fondazione romana. Ed è proprio questa l’archeologia più avanzata, ma non abbracciata dia tutti. I parametri sono cambiati nel tempo, le esigenze pure. Aggiungo un altro frammento dallo stesso libro:

l’archeologia poi è al tempo stesso attività fisica sul campo e attività intellettuale svolta nello studio o in laboratorio […] La ricca miscela di pericolo e lavoro investigativo ne ha fatto un perfetto campo d’azione per narratori e registi, da Agatha Christie […] a Steven Spielberg […]. Per quanto lontane dalla realtà possano essere queste descrizioni, esse raccolgono comunque una fondamentale verità: l’archeologia è una ricerca emozionante, cioè la ricerca della conoscenza su noi stessi e sul nostro passato“.**

L’archeologo fa storia con le mani nel terreno, ma non solo.

Nonostante si venga da una tradizione di pensiero per cui lo storico fa storia e l’archeologo studia le statue e gli antichi vasi, da qualche decennio si sta lavorando al superamento di questa visione un po’ parziale della complessità del mestiere dell’archeologo, in favore di un’altra: l’archeologo fa storia, come lo storico, ma predilige molte altre categorie di fonti, oltre a quelle testuali: prima di tutto l’evidenza materiale che può raccogliere nel sottosuolo attraverso lo scavo stratigrafico oppure esaminando quel che già è visibile; poi le fonti iconografiche, quindi rappresentazioni figurate di ogni epoca e fatte con ogni mezzo (pittura, incisione, fotografia…); le fonti cartografiche, quindi mappe e carte e così via. Ogni fonte ha la sua epoca e il suo potenziale informativo rispetto al nostro oggetto di ricerca, sta a noi scovarle e “farle parlare”.

E questo è il sapore investigativo dell’indagine archeologica. Vi aspetto nei commenti e vi ringrazio per la condivisione di questo post. A presto!

Opere citate e consigli di lettura

*V.Gordon Childe, I frammenti del Passato. Archeologia della preistoria, Milano: Feltrinelli 1960, p. 5.

**Colin Renfrew e Paul Bahn, Archeologia. Teorie, metodi e pratica, Bologna: Zanichelli, 1995, p. 1.

Consigli di lettura, per cominciare a prendere confidenza con l’archeologia, così come ve l’ho presentata:

Daniele Manacorda, Prima lezione di archeologia, Bari: Laterza 2004.

Giuliano De Felice, Archeologia di un paesaggio contemporaneo, Bari: Edipuglia 2020 (questo lo trovate sul sito della casa editrice).

Commenti

4 risposte a “Che cos’è l’archeologia?”

  1. Avatar vincenzo562c4cf6f1c9
    vincenzo562c4cf6f1c9

    Grazie Valeria, bellissimo articolo molto esplicativo e coinvolgente, mi appassiona il tuo modo di fare e di proporre riflessioni. Vincenzo

    Piace a 1 persona

    1. Avatar Valeria Di Cola
      Valeria Di Cola

      Grazie Vincenzo, i commenti dei lettori sono il sale delle pubblicazioni online 🙂

      "Mi piace"

  2. Avatar La mostra “Domiziano imperatore. Amore e Odio”: la mia recensione. – Muri per tutti

    […] la fase analitica dalla fase interpretativa, come vi ho raccontato nel mio ultimo articolo (eccolo: https://muripertutti.wordpress.com/2023/01/14/che-cose-larcheologia/), perciò cercherò di darvi informazioni per quanto possibile strutturate e analitiche. Inutile […]

    "Mi piace"

  3. Avatar L’Antiquarium Comunale del Celio – prima parte. – Muri per tutti

    […] Beh, se mi avete seguito qui sul blog, sapete come la penso: Manacorda ci ha insegnato (e soprattutto, ce lo ha dimostrato) che l’archeologia non è la ricerca dell’ “antico vaso”, né significa occuparsi di cose antiche. L’archeologia è un modo di guardare il mondo, è una lente, con la quale analizziamo la realtà di qualsiasi epoca (se volete, trovate il mio focus qui). […]

    "Mi piace"

Lascia un commento