“Fulmini e spazzatura” di Enrico Giannichedda. La mia recensione.

Libri che valgono sempre la pena#

Se non avete avuto modo di leggere la mia recensione su Archeologia Classica del 2022 su Fulmini e spazzatura (Bari-Edipuglia 2021), vi riporto qui una versione alleggerita del testo, perché non c’è cosa peggiore di scrivere cose che pochi o nessuno leggerà.

Enrico Giannichedda, nel corso della sua esperienza di archeologo particolarmente legato all’esperienza sul campo, ha proposto alla riflessione collettiva ottimi esempi di come e quanto la pratica archeologica debba essere accompagnata, e nutrita, da una profonda riflessione teorica (per citare i fondamentali, T. Mannoni, E. Giannichedda, Archeologia della produzione, Torino 1996; E. Giannichedda, Archeologia Teorica, Roma 2002). In tempi recenti, ha esplorato altri generi per ‘fare storia’, sfoggiando una eccellente versatilità narrativa, appassionante e al tempo stesso intrisa di metodologia (E. Giannichedda, Quasi giallo. Romanzo di archeologia, Bari 2018) che per altro si avverte tra le pagine di Fulmini e spazzatura.

La copertina del libro edito da Edipuglia nel 2021.

Uno scenario da classificazione

Uno studente è sulla soglia del magazzino dei reperti. Dopo aver avuto una prima infarinatura sui metodi e le competenze necessarie per lavorare al tavolo dei materiali di uno scavo, è chiamato, per la prima volta, a operare. Lo studente ha due opzioni: abbandonare la missione prima ancora di averla cominciata, oppure varcare quella soglia e mettere mano ai frammenti incassettati. A quali risorse dovrà fare appello? Quali metodi dovrà mettere in campo per orientarsi nel mare dei frammenti, ciascuno dei quali portatore di una potenziale storia da individuare e ricostruire? 

Il libro di Enrico Giannichedda, tra i suoi tanti pregi, ne ha uno in particolare: viene in soccorso a chi si è già trovato sulla soglia di quel magazzino, e a chi, presto o tardi, ci si troverà. È un lavoro ampio, circostanziato, ricco di spunti e di piste da seguire, che si dipanano nello spazio di una intensa riflessione sul tema della classificazione in archeologia. 

Tutti noi classifichiamo. Classificare è, prima ancora che una pratica scientifica, una attitudine, che l’uomo, da sempre, ha messo in atto per tentare di dominare la complessità della realtà che lo circonda. Giannichedda si assume il compito di riordinare, come in un documentario, i nomi, gli approcci, i temi di ricerca, i metodi messi a punto e i luoghi dell’indagine, di coloro che hanno significativamente contribuito a tracciare la storia del pensiero classificatorio

Anatomia del libro

Il volume si articola in quattro parti, suddivise in nove capitoli. 

Nell’Introduzione (Classificare perché? pp. 7-19) si chiariscono subito i termini della questione ‘classificazione’ , sgombrando il campo da eventuali fraintendimenti sul concetto di ‘classificare’, rispetto, ad esempio, al significato di ‘catalogare’. Restando saldo il principio per cui classificare è innanzitutto un atto che si compie con naturalezza, per dominare la complessità della realtà, si sottolinea come l’attività di classificare di cui si tratta è quella che ha per obiettivo ‘il fare storia’ (p. 12). L’alto valore di una pratica apparentemente inutile, noiosa o addirittura problematica, nel momento in cui produce grandi volumi di reperti da dover gestire, sta, d’altronde, proprio nel suo punto di arrivo: fornire le basi documentarie, materiali e culturali, per ricostruire le civiltà del passato, lontano ma anche recente. Si forniscono, quindi, le prime coordinate spaziali e temporali nell’ambito delle quali si muove la riflessione teorica dell’Autore. Sono chiamati ‘a testimoniare’ non solo personaggi ed esponenti delle scuole di pensiero già note alla cultura archeologica (da Pitt Rivers a Mannoni, dalla New Archaeology al Post-processualismo), ma anche studiosi di altri campi del sapere, i quali hanno espresso in classificazioni la propria riflessione teorica, fornendo, quindi, utili spunti che l’Autore sapientemente intreccia al discorso generale. 

Prima parte – Dai fulmini alla spazzatura

La prima parte si intitola, suggestivamente, Dai fulmini alla spazzatura (pp. 23-113) e affronta – come si può intuire – i primordi della riflessione scientifica e storica sulle testimonianze del passato fino alle indagini antropologiche nelle immondizie della società contemporanea.

1. GIGANTI E TEMPO STORICO. Nel primo capitolo l’autore procede ad una selezione delle figure che incarnano le ‘svolte’ cognitive nel lungo processo di formazione e affinamento del metodo della ricerca storica, ravvivando in noi – qui seguendo il filo conduttore della classificazione – il ricordo delle pagine travolgenti di Alain Schnapp (A. Schnapp, La conquista del passato, Milano 1993, prima edizione italiana). I personaggi scelti, in estrema sintesi, rappresentano le tappe di una lenta ma inesorabile conquista del passato, concretizzatasi attorno ad almeno tre concetti fondamentali: definire l’antichità dell’uomo (con le note difficoltà derivanti dal dettato biblico, che non corrispondeva alle evidenze materiali); comprendere e spiegare le similitudini e le differenziazioni culturali secondo le coordinate di spazio (regionali) e tempo (cronologiche), mantenendo una prospettiva che, fin dagli inizi, ha un respiro globale, e dovendo spiegare fenomeni di portata universale, come il Sistema delle tre età.

Lo strepitoso (e introvabile) libro dell’archeologo francese Alain Schnapp sulle origini dell’Archeologia.

Nell’elencarli, si coglie l’occasione di esplicitare le origini del pensiero critico verso quella che sarebbe poi stata definita ‘cultura materiale’, rispetto alla quale, fin dagli albori della storia dell’uomo, ci si è sempre relazionati. Il primo ad essere menzionato è Michele Mercati (1541-1593), passato alla storia per essersi cimentato nel tentativo di classificare la ceraunia, detta anche “pietra del fulmine”, che si credeva essere caduta dal cielo del basso Reno.

A cavallo tra Ottocento e Novecento, l’approccio ai resti materiali delle culture passate si evolve in senso più “scientifico”, ed è in tale contesto che si colloca l’intuizione di Christian Jurgensen Thomsen (1788-1865). Dalla remota Danimarca con le sue stratificazioni prive della facies romana, Thomsen costruisce il Sistema delle tre età, venendo da una lunga esperienza di numismatico attento alle minime variazioni stilistiche tra i tipi e al significato celato dietro tali variazioni. Valorizzando, poi, l’informazione cronologica derivante dai contesti chiusi, dà vita a un “metodo classificatorio che va di pari passo con il Paradigma delle tre Età”.

Con le sue carrozze e macchine allineate in una sequenza crono-tipologica e tecnologica, Gustav Oscar Montelius (1843-1921) trae evidentemente frutto dall’evoluzione del pensiero pregresso, introducendo i concetti di gradualità dei cambiamenti – ricorrendo, tuttavia, al criticato diffusionismo, nota l’Autore – aprendo, per altro, una riflessione sul tema del valore in riferimento all’evoluzione tipologica delle asce preistoriche. Per inciso, è appena il caso di sottolineare quanto il ricchissimo apparato illustrativo che accompagna il testo di Giannichedda ne amplifichi le potenzialità didascaliche, innestando rimandi al discorso principale. Non sfugge, qui, il richiamo a Boucher de Pertes, che cento anni prima di Montelius aveva definito “antidiluviane” le “industrie primitive”, sebbene avesse riunito materiali che oggi non consideriamo coevi. Il valore dell’intuizione, tuttavia, resta.

Oscar Montelius, archeologo scandinavo autore del Paradigma delle Tre età (foto Wikipedia).

Nell’ambito di una riflessione sul ruolo formativo dei Musei (tipicamente ottocentesca) è August Henry Pitt Rivers il personaggio da citare, autore della celebre frase “the visitors may instruct themselves” in riferimento al valore educativo del museo, secondo quella che l’autore definisce “un’operazione didattica” e non una mera esposizione di prestigiosi reperti. Tuttavia, Pitt Rivers è un uomo del suo tempo e ragiona con un’ottica funzionalista-progressista, per cui ad oggetto meno complesso segue oggetto più complesso: un approccio, per quanto arricchitosi nei decenni successivi di altre risorse concettuali, aiutò in quell’epoca a porre il fuoco sul concetto di “mutamento delle forme e delle società che le producono”. 

August Pitt Rivers, tra i primi e lungimiranti fautori della funzione didattica del Museo (foto University of Oxford)

Conclude la serie dei giganti William Matthew Flinders-Petrie (1853-1942). Con il suo stile avventuroso di condurre le proprie ricerche in Egitto è riuscito a costruire sequenze tipologiche dei corredi trovati nelle tombe egizie, affinandole al decennio. A tal proposito, l’Autore commenta che tali sequenze sono tanto serrate quanto locali, ma sono pur sempre fondamentali nel rigore del metodo e nell’accuratezza della documentazione dei pezzi, altro tema di fondamentale importanza, a nostro avviso, nella classificazione. 

William Flinders-Petrie, archeologo britannico autore di importanti scoperte in Egitto (foto Wikipedia)

2. I GRANDI ORDINATORI. Nel secondo capitolo, l’Autore passa a illustrare i protagonisti di una seconda fase della storia del pensiero, studiosi che “culturalmente si mossero fra Roma e Atene” con spirito “tedesco”, (p. 43) svolgendo il lavoro di classificazione in direzione dell’iper rigore, con chiavi di lettura a cavallo tra la matrice storica e quella storico-artistica, interpreti di un’epoca che richiedeva di mettere ordine in enormi quantità di reperti in lavori “colossali e meticolosi” che, consegnati alle generazioni successive, avrebbero poi richiesto molto tempo e tanta dedizione per essere affinati, messi a punto, precisati. E qui viene spontaneo aggiungere: come è normale che sia in una disciplina in divenire.

Ecco, dunque, giungere l’epoca dei grandi ordinatori. Per citare solo i più noti, nomineremo Hans Dragendorff (1870-1941) e la sistematica di forme e decoripresenti sulle terre sigillate, con il suo respiro ampio esteso l’intero mondo romano, nonostante la località dei tipi: sarà superato solo nel 1990 dal Conspectus. A seguire, Heinrich Dressel (1845-1920), con la sua tavola delle 45 anfore, “la cosa giusta nel momento giusto” (p. 46): sebbene volesse avere solo uno scopo indicativo ed illustrativo “del supporto su quale erano riportati i tituli picti”, finì per costituire uno strumento fondamentale per gli studi tipologici e per l’ “anforologia”, che – chiosa l’autore – andrebbe oggi studiata più nei siti di produzione, che non nei luoghi di circolazione, considerando il valore complesso del contenitore, che è supporto, merce, unità dismisura, prodotto artigianale.

Heinrich Dressel, il nome forse più pronunciato dagli archeologi!

3. PUNTO E A CAPO. Si giunge, così, al terzo capitolo introdotto dal personaggio che l’Autore definisce “uno spartiacque”: Vere Gordon Childe (1892-1957). 

A lui Giannichedda assegna un ruolo nodale. Childe è un uomo di scienza, il quale – complice anche il periodo segnato dal boom economico – si trova a rivoluzionare il modo di concepire l’antico e di approcciarsi ai suoi resti materiali. Mosso (o forse vittima) di una generale insoddisfazione verso la società contemporanea, che lo porterà al suicidio, Childe coglie il nesso tra cultura e movimento dei popoli, sfondando la barriera della tipologia autoreferenziale e aprendo il ragionamento verso le associazioni di materiali (tema ancora oggi caldissimo) e la rilevanza dello sguardo ai territori per spiegare i movimenti e i trasferimenti di culture. Ma Giannichedda avverte che il pensiero di Childe è più complesso di come appaia citato (parzialmente) in taluni luoghi, pertanto approfondisce. La prassi del classificare si pratica tenendo conto di tre aspetti: funzione, cronologia e corologia (topografia di dettaglio), per poi ulteriormente ragionare sulla definizione di tipo, esito di azioni ripetute all’interno di una data tradizione. Non coincide, quindi, con il diffusionismo, bensì con il tentativo di stabilire relazioni tra equipaggiamenti materiali e formazioni sociali. Ciò pone all’attenzione un altro tema trasversale nell’opera: la durata degli oggetti.  

Il genio e le intuizioni di Vere Gordon Childe hanno cambiato il pensiero archeologico del Novecento (foto Wikipedia).

4. ANALISI E DEFINIZIONI. La storia del pensiero archeologico, nella sua declinazione verso gli aspetti materiali delle testimonianze antiche colti nel difficile rapporto tra luogo, attestazioni, riconoscimento dei tipi e del loro significato, locale e universale, prosegue con il blocco dei contemporanei (“tra le due guerre mondiali o nel decennio successivo”, p. 65), raggruppati nel quarto capitolo. L’Autore concepisce questa parte utile a esemplificare come, da una parte, Childe abbia effettivamente rappresentato uno spartiacque nell’approccio al dato materiale e di contesto e alla prospettiva che chi sarebbe venuto dopo avrebbe potuto cogliere in eredità. E nonsostante tutto e nonostante Childe, dice Giannichedda, le tipologie sarebbero servite ancora a lungo nei decenni successivi a dare sostanza all’approccio storico culturale, che sarà poi superato dalla generazione di archeologi in campo nel periodo del secondo dopoguerra, andando così a far compenetrare le precedenti analisi quasi esclusivamente tese a determinare tipi culture con le questioni territoriali, ambientali, ecologiche, socioeconomiche e culturali. 

Si passano, così, in rassegna gli statunitensi James A. Ford e Albert C. Spaulding, poli di una dialettica incentrata sugli aspetti tesi a definire il tipo. Per Ford è il ruolo attivo del ricercatore con il suo approccio empirico a determinare i tipi, mentre per Spaulding è il metodo statistico (sbagliato, dice Giannichedda) per ricostruire le scelte degli antichi (ottica giusta, secondo l’Autore), non tralasciando il forte apporto dell’antropologia nel contesto di lavoro. Altra coppia dialettica è quella che oppone Francoise Bordes ai Binford (Sally Rosen e Lewis R.), trattando i quali l’autore si domanda: le differenze riscontrate nelle associazioni di manufatti erano frutto di etnicità o attività? Dei modi di essere aggregati degli uomini (socio funzioni) o del modo di agire (tecno funzioni)? Montagne di dati rigorissimi oppure costruzioni pensate con l’occhio alla tradizione etnografica? La riposta suggerita è, ovviamente, di cercare nel mezzo, traendo il buono e il meglio dalle due facce del mestiere dell’archeologo che studia le civiltà dal punto di vista dei suoi equipaggiamenti.

Segue il francese George Laplace, poi David L.Clark, che con la sua archeologia analitica cerca di individuare quali caratteri definiscano i tipi. Si giunge così a Jean-Claude Gardin e alla sua archeologia logicista che, nel momento in cui il computer entra nei laboratori e negli uffici degli archeologi, tenta di costruire un codice con il quale “normalizzare” i lessici nella fase fondamentale della documentazione (altro tema ancora molto attuale). A seguire, è l’avvento del Maestro, Tiziano Mannoni, colui il quale ha introdotto il tema delle classi della produzione, con l’obiettivo di creare un sistema razionale ed omogeneo di classificazione. Nello schema tipologico, assegnato al rivestimento dei vasi il primo importante elemento discriminante (da cui: invetriate, ingobbiate, smaltate), si passa ad individuare le forme funzionali, definendole tipi, riconoscendo, per altro in anticipo, l’importanza delle analisi archeometriche nella definizione delle provenienze  dei materiali e delle specificità tecnologiche.

Tiziano Mannoni (1928-2010), archeologo e pilastro dell’archeologia italiana.

E a questo punto si comprenderà che quel che è venuto dopo, non può che essere valutato alla luce di quanto elaborato metodologicamente da Mannoni, che si tratti di decori e forme (così come teorizzate da Graziella Berti), oppure di complesse impalcature tipologiche basate sulla distinzioni di molti livelli di classificazione (e si cita Renato Peroni per l’articolazione in categoria, classe, sottoclasse, forma, foggia, gruppo, varietà, variante, attributo), nelle quali i tipi sono, ad un tempo, il concreto esito della vita sociale e “agenti” sociali. I tipi, dunque, assumono il duplice ruolo di creazione conseguente a una trasformazione, ma anche ciò che la determina.

Dopo lo “spartiacque” Childe, e dopo l’innovativo Mannoni, ci si può serenamente immergere nell’universo simbolico di Ian Hodder e del post processualismo, dove la prospettiva si ribalta: come afferma l’Autore, tale “archeologia si basa, per quanto ci interessa in questa sede, sul sostenere che nessun oggetto sia soltanto utile perché, in ogni caso, produzione e utilizzo sono atti sociali e comunicativi che soddisfacevano esigenze di stile, gusto e rappresentazione” (p. 106). Gli oggetti sono simboli atti a veicolare messaggi. Una prospettiva forse poco praticabile, dice Giannichedda, ma che è una “dichiarazione di apertura mentale” (p. 109), atta a sollevare problemi e a creare occasioni di confronto per tentare di risolverli. E ancora una volta, l’Autore invita a combinare i diversi atteggiamenti, laddove “funzione e stile andrebbero lette come esito di pratiche produttive, logiche socio culturali, soddisfazione di esigenze di uso e talvolta peculiarità di singoli individui” (p. 110).

La prima parte si chiude con Rubbish, il noto Garbage Project attuato da Willian Rathje a Tucson, in Arizona, nel 1971. Un progetto che nell’opera è letto in chiave tipologica, a partire dalle tavole che illustrano i tanti tipi di levette delle bibite in lattina, considerati gli indicatori di una variabilità che, rilevante o meno che fosse per il consumatore, esiste. Lo spunto che ne emerge dallo sguardo di Giannichedda è prezioso: non già, dunque, immondizia come il luogo dove, finalmente, l’archeologia sarebbe di lì a poco andata a ‘mettere le mani’ (ad esempio con lo scavo dell’isolato della Crypta Balbi), ma anche quale controparte materiale di una certa complessità dei comportamenti che, se vengono ripetuti, dice l’Autore, diventano discariche, accumuli, ovvero si materializzano in reperti e contesti.  

Seconda parte – Con le scarpe degli altri

5. ALTRE DISCIPLINE, ALTRE STRADE. Nel quinto capitolo si offrono utili rimandi rimandi a tutta una serie di personaggi che, con differenti approcci e in diversi momenti storici, si sono cimentati nella pratica classificatoria. Richiamarli all’attenzione è stata una felice trovata, dal momento che, quando si ambisce a trattare di civiltà, passate o presenti, è doveroso almeno tentare di indossare le scarpe di chi, prima di noi, ha percorso le medesime strade. Allo stesso modo, dunque, l’Autore indossa, di volta in volta, le scarpe di coloro che, a partire dalla fertilissima stagione antiquaria (verso la quale è, forse, eccessivamente critico) si sono occupati di classificare testimonianze materiali. 

Giannichedda sente l’urgenza di spaziare, tanto per nutrire la curiosità, quanto per confermare quanto la storia dell’archeologia dipenda da molte delle intuizioni avvenute in altri campi della conoscenza. Muovendo, quindi,  dalla letteratura settecentesca, richiama Daniel De Foe e Jonathan Swift, le classificazioni naturalistiche di Carl Nilsson Linnaeus, le teorie evoluzionistiche di Charles Darwin e gli approcci etno-antropologici, la semiotica letteraria di Umberto Eco (personaggio al quale fa ripetutamente appello nel libro, per spiegare il processo di attribuzione dei tipi), fino alla cultura visuale, dove la lettura tecnico pratica e la lettura rituale simbolica offrono l’occasione di valutare la complessità del pensiero di chi produce gli oggetti che gli archeologi si trovano a maneggiare.

Terza parte – I mezzi a disposizione

6. QUASI UN GLOSSARIO. Ovvero agli aspetti più specialistici della riflessione, perfettamente inseriti nell’ambito di un discorso teorico fluido e avvolgente. Qui, le classificazione si fa prassi e le azioni diventano procedure decodificate: Classificazione, Tipologia, Tassonomia, Gruppo/Classe/Categoria/Produzione, Serie, Associazione, Contesto e, infine, Tipo. Si ritorna sul concetto di cosa definisca un tipo, e con quali criteri, fermo restando un principio: il tipo è figlio della propria ricerca, del luogo, del tempo e del contesto sociale in cui se ne concepisce l’identità. Il glossario prosegue, poi, con le definizioni di Idealitpo e Prototipo, Sottotipi/varietà/varianti/ e attributi, altro punto nodale del ragionamento sulla classificazione, dove, ancora una volta, emerge il concetto che, in definitiva, la tipologia è un’astrazione legata al contesto e come tale va presa. 

7. REGISTRARE INFORMAZIONI. PAROLE, SCHEDE, DISEGNI. Nel settimo capitolo, si affronta un tema solo apparentemente marginale o meramente tecnico. La fase di documentazione, al contrario, è a nostro avviso il momento cruciale della costruzione del dato archeologico, dalla quale discenderà, poi, l’impianto interpretativo. Ciò si considera valido per un frammento ceramico, tanto quanto per un edificio. L’Autore, dunque, in questa parte esamina e discute i pregi e i limiti dei metodi di documentazione, dalla tradizionale scheda cartacea (con tutti i limiti e le difficoltà insiti nelle sistematizzazioni), ai più recenti progetti di archiviazione 3D, capaci – in teoria – di riconoscere autonomamente le forme e rispetto ai quali non nasconde il proprio scetticismo. Non poche sono le perplessità manifestate, e tra tutte emerge il difficile rapporto tra il riconoscimento digitale delle forme e una certa ‘analogicità’, diremmo noi, del mestiere dell’archeologo, la cui conoscenza degli oggetti, specialmente dei reperti della cultura materiale in senso stretto, passa necessariamente dal contatto fisico con la materia di cui sono fatti. Il coccio va toccato, va saggiato: in tale passaggio emerge tutta la lunga esperienza sul campo (e in magazzino) dell’Autore, della quale si aveva avuto un assaggio nell’Introduzione.

Il tema della documentazione (il mio tema di ricerca specifico!), per altro, è solo apparentemente una mera questione di grafici, perché nel momento in cui si compila una scheda o si redige un disegno, come ben sappiamo, l’archeologo sta compiendo la sua prima interpretazione. A tal proposito, particolarmente destabilizzante è la figura n. 157, nella quale sono raffigurate quattro differenti versioni di una sezione di un frammento ceramico. Tale livello di variabilità nell’accuratezza di un disegno invita ad usare cautela nel sottovalutarne le conseguenze: perché se è vero che il disegno rientra nella fase ‘archeografica’ della documentazione, qualsiasi interpretazione costruita su una di quelle quattro versione racconterebbe la storia di un oggetto diverso, quando, invece, sarebbe il medesimo.

La figura n. 157 (da Giannichedda 2021) mi ha particolarmente turbata: sono quattro differenti profili di uno stesso vaso, esito del disegno di quattro differenti mani.

Quarta parte – Domande e obiettivi

8. DOMANDE E APPROCCI AI MATERIALI. In questo capitolo si evidenzia l’importanza dei tanti approcci che concorrono allo studio della cultura materiale: cronotipologico, tecnologico, tecnoantropologico, sociale, socioeconomico e cognitivo. La trattazione è molto sintetica e qui tornano ad essere citati, in altra chiave e nel merito dei loro approcci, i personaggi menzionati nelle parti prima e seconda. Sull’argomento, Giannichedda conclude dicendo che nessuno degli approcci è, in sé stesso, completo e con una felice espressione ammette di aver voluto fornire una raccolta di “abbecedari per pensare” (p. 251). Balza agli occhi la scarsa presenza della compagine italiana nel vasto discorso sulla classificazione, e non per omissione dell’Autore: un elemento di riflessione teorico-culturale da tenere a mente per gli sviluppi futuri del dibattito metodologico.

“Tutto dipende dal ricercatore”

9. NOI E LORO. L’ultimo capitolo proietta il lettore nella pratica della classificazione del futuro con la consapevolezza delle riflessioni del passato. L’Autore sintetizza la procedura che, a questo punto, consiglia di seguire nel momento in cui ci si accinge a studiare la cultura materiale, laddove “tutto dipende dal ricercatore” (p. 267).

Il primo passo è tecnico: rilevare e stabilire gli attributi significativi ai fini della propria ricerca.

Il secondo è adottare un’ottica funzionale per ragionare di necessità e bisogni.

Il terzo è procedere al riconoscimento degli usi concreti, e quindi, imprimere un taglio locale, puntale e contestuale a ciò che si indaga.

Quarto passo: ricostruire la vita dei manufatti quando sia realmente possibile e – compito arduo e affascinante – stabilire la durata degli oggetti.

Quinto passo: calzare le scarpe dell’artigiano per capire quel fosse, per lui, la classificazione degna di senso in base alla quale ha operato, con la consapevolezza che la succitata durata degli oggetti è un aspetto che, sopra ogni altro, tende a destabilizzare qualsiasi costruzione mentale, poiché dipende dalla lettura culturale e dall’attribuzione di un senso che cambia, inevitabilmente, nel tempo e che non è facile cogliere sistematicamente. 

In conclusione: meglio leggerlo!

Il volume “Fulmini e spazzatura” regala un coinvolgente viaggio nel pensiero, nella cultura e nel mestiere della classificazione. La chiave concettuale dell’Autore è sempre esplicita e guida il lettore attraverso lo scorrere delle pagine. La lettura è piacevole e rapida, poiché il libro non presenta note a piè di pagina, mentre offre un ricchissimo apparato iconografico, un vero e proprio repertorio di immagini e pensieri, che accompagna e dilata una materia già molto densa e stimolante.

Lo stile narrativo, che traduce in modo chiaro e coinvolgente il pensiero dell’Autore, rende l’opera adatta sia ad una lettura di approfondimento, che ad un uso manualistico, preferibilmente da parte di archeologi già in cammino nella propria formazione. Il volume ha, infatti, una solida impalcatura metodologica – garantita dalla globalità dell’approccio al vasto mondo delle idee – e la struttura è concepita in modo che si colgano, di volta in volta, gli aspetti utili alla definizione sia teorica che pratica del mestiere dell’archeologo/classificatore, all’ombra delle cassette dei reperti. 

Un lavoro, questo, tanto lungo e “noioso”, quanto nobile e necessario, in grado, d’altronde, di formare i futuri interpreti di un passato denso e frammentario, che potrà in ogni caso essere ricomposto e narrato prendendo spunto dai Fulmini e dalla Spazzatura, grazie ad una metodologia condivisa e sperimentale, accompagnata da una sana e vivace riflessione teorica. 

E poi Giannichedda vale sempre il tempo speso a leggerlo, perché ha il potere di aprirti la mente, con disinvoltura.

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