Perché parlare di un libro che racconta di un paesaggio lontano come quello del Colorado nel mio blog di archeologia? Una possibile risposta è che i paesaggi, a prescindere dalla latitudine, possono essere vissuti e raccontati in modi simili, dunque leggere resoconti e riflessioni può essere illuminante per le proprie ricerche.
Di recente ho avuto la fortuna di scoprire il libro “Antropologia del Turchese” fra i titoli editi dalla Casa Editrice indipendente Black Coffee (se non la conoscete: https://www.edizioniblackcoffee.it), specializzata in letteratura nordamericana, emergente ma non solo. L’autrice è Ellen Meloy, una naturalista, vissuta per gran parte della sua vita tra Pasadina e il deserto del Colorado. Proprio lui, il deserto reso famoso dai suoi colori cangianti, dalle sue stratificazioni a gradiente, così impressionanti da essere immortalate in migliaia di foto e cartoline.
Il libro raccoglie un serie di saggi scritti in vari momenti della vita della Meloy e tutti hanno a che fare con il “suo” deserto. Dal deserto partono e al deserto tornano i tanti fili che ha intrecciato nella sua vita di studiosa, di esploratrice, di moglie e di rispettosa amante del pianeta e delle sue creature, tutte: piante, animali e sapiens.
Per la ricchezza di informazioni sul paesaggio e le sue storie, potrebbe essere considerato alla stregua di un libro scientifico, ma non ha le note a piè di pagina (per fortuna), non ha una bibliografia ed è scritto in modo semplice e poetico, perché ogni parola nasce dal profondo amore che la studiosa ha provato per quel suo mondo così intimo e travolgente. O almeno, io così l’ho percepito.
Il mio obiettivo non è offrirvi il riassunto del libro: il libro merita ogni minuto del tempo che vorrete dedicargli leggendolo. Vorrei però presentarvelo attraverso i passi e le parole chiave che hanno lasciato una traccia nel mio cuore e nel mio pensiero scientifico. Come forse saprete, mi occupo di paesaggi antichi, ad esempio il Primo Miglio della via Appia a Roma, e lavoro alla ricerca costante di metodi e tecniche della narrazione di questo contesto urbano stratificato e complesso.
Da questo punto di vista, il libro della Meloy mi ha dato validissimi spunti di riflessione, non tanto tecnici, quanto concettuali. E mi ha confermato, una volta di più, che perfino un paesaggio immenso e ancestrale come quello del Colorado può essere spiegato con parole semplici e al contempo ricche di profonda sapienza.
Una vera chicca è la prefazione. Quando ero adolescente non leggevo mai le prefazioni, pensando di risparmiare tempo. Ma come ogni adolescente che si rispetti, mi sbagliavo. Nella prefazione c’è il sale del libro, il più delle volte. E devo dire che le pagine che introducono alla lettura del volume, scritte da Sara Reggiani (traduttrice ed editor di Black Coffee), sono semplicemente meravigliose. Lo sono, perché sono vere, sincere, sentite, vissute. Dico vissute perché la traduzione dall’inglese di questa raccolta di saggi ha avuto una genesi tipica delle migliori imprese letterarie.
La Reggiani ha voluto ripercorrere i passi della Meloy nel suo ambiente naturale, ha voluto assaporare con gli occhi e sentire col cuore la magnificenza di quel deserto che tanto aveva rapito l’autrice e suo marito, il suo mitico consorte, ranger sul fiume Colorado. L’approccio alla traduzione è stato, quindi, per così dire, contestuale, un approccio comune al mio modo di operare e del tutto vincente. La Reggiani si è quindi immersa nella casa dell’autrice e nei suoi affetti, anche perché è stato grazie al supporto del marito e del fratello della Meloy che ha potuto penetrarne a fondo gli scritti. E di tale circostanza, la traduzione ne beneficia totalmente.
L’impatto con il deserto è deflagrante. L’impatto con il deserto visto in compagnia di casa Meloy è intensamente emozionante. La potenza della Natura e le radici della storia cominciano a pioverti in testa quando sei al cospetto delle tracce di vita della popolazione locale, gli Anasazi, i cui manufatti di pietra scrocchiano a centinaia sotto i piedi. Umanamente parlando, la tentazione di raccoglierne uno, uno solo, è fortissima (tanto ce ne sono altri mille). Scientificamente parlando, è inopportuno. “Tutto quello che vedete e trovate deve restare dove l’avete visto e trovato” dice con dolcezza Mark, il marito di Ellen, a Sara. Come vedete, i problemi dei reperti archeologici sono gli stessi anche nel Colorado e la coscienza degli abitanti del luogo fa parlare e dire frasi solo apparentemente scomode.
Sara ha capito e lotta contro la tentazione, molto umana, di farle proprie. E però sente nascere un altro sentimento, fortissimo, desiderando di possedere quei reperti: il senso di appartenenza a quel luogo. Come è possibile provare quella sensazione, se lei è italianissima e non ha mai messo piede nel Colorado? Torna a rispondere Mark: “magari la tua gente li usava. Magari hai sangue indiano nelle vene”.
“Malgrado la distruzione del mondo naturale eseguita con l’invenzione di ambienti ad esclusivo uso dell’uomo, malgrado la preponderanza dell’illuminazione artificiale delle nostre vite, l’occhio umano si è evoluto alla luce del girono […]. I nostri corpi dipendono ancora profondamente dai tempi dettati dalla natura. Le nostre percezioni sono e sempre saranno l’unica vera mappa del mondo di cui disponiamo. Le nostre cellule, dialogano col paesaggio, condividono con esse un legame di sangue.”
Così scrive la Meloy. Vi è mai capitato di sentire un richiamo, un filo che annoda i vostri piedi al suolo, un amo che aggancia il vostro cuore, quando visitate un luogo remoto, magari anche un sito archeologico? A me capita e di frequente. E mi capita perfino con i nativi Americani, ma come è possibile? Negli anni ci ho meditato. Non sono fortunata come Edward Norton, che può vantare una lontana parentela con Pocahontas, come ha affermato di recente. Ma me lo sono chiesto da quando ho cominciato a studiare archeologia e ho capito una cosa.
Quel senso di lontana appartenenza che sento, deriva dal fatto che come ogni Sapiens ho la percezione della memoria della mia specie. Una percezione spesso inconsapevole, frequentemente ignorata, ma esistente. È la forza del DNA, al quale, naturalmente, si sommano le astrazioni, le conoscenze, i sentimenti individuali, con un esito, però, comune a tutti: un posto che non abbiamo mai visto prima ci suona familiare.
Per questo credo che la potenza dell’archeologia sia indiscutibile: se si lavorasse su questo senso di appartenenza, che non viaggia sulla “razza” e su chi vi risiede ora, come meschinamente ci si fa credere, bensì sulla percezione dei luoghi e della loro energia stratificata nei secoli, generata da tutte le vite che l’hanno abitati prima di noi, saremmo davvero il paese più ricco del mondo. Culturalmente e forse anche economicamente.
“Casa è qualcosa che ti guadagni”, riflette Sara Reggiani, citando l’autrice. Quanto è vero. Guadagnarsi il proprio paesaggio, essendo gli ultimi arrivati, è un concetto tanto fondamentale quanto ignorato. Da come il nostro paesaggio italiano è stato trattato dalle amministrazioni (e non ne ricordo una buona, a prescindere dal colore), sembra tutto il contrario: gli ultimi arrivati fanno come vogliono. E nessuno si preoccupa delle generazioni future. Ma che senso ha questa prospettiva miope?
Alle mie orecchie suonano ogni volta ipocrite le parole di chi promette futuro divorando l’ambiente che dovrebbe ospitarlo, il futuro. Non ci sarà futuro, nemmeno sulla carta. Per questo sono giunta alla conclusione che se devo investire il mio tempo nella ricerca sul passato, devo tassativamente lavorare alla condivisione della conoscenza, affinché una maggiore consapevolezza conduca a generare una più accorta popolazione di cittadini e fruitori del patrimonio culturale, nel quale, nemmeno a dirlo, rientra il paesaggio.
“Turchese è un foro aperto verso il cielo”. “Turchese è il tesoro portatile dei nomadi”. “Turchese àncora uno dei quattro lembi dell’universo navajo”.
Turchese è il colore delle piscine che ogni californiano che si rispetti ha nella propria casa, tranne la famiglia di Ellen. Turchese è la pietra che dà forza e protezione dai sogni spiacevoli, si dice che scongiurasse l’annegamento e l’attacco del fulmine. Turchese, dopo aver letto il libro, è il colore dei vaghi di una collana preziosa, fatta di ricordi e di emozioni, che la Meloy infila, uno ad uno, tra le sue pagine. Seguendo il turchese si segue la storia dell’uomo, attraverso la storia di Ellen e della sua famiglia. Una famiglia californiana con origini in parte native. Una famiglia le cui storie di vita quotidiana si sono intrecciate a quelle dei nativi, nelle generazioni passate ma anche al presente, giacché i vicini di casa di Ellen e Mark sono i nativi Anasazi.
“Sara e la sua famiglia assistettero al confinamento di gran parte degli indiani in riserve e missioni, dove vendevano le loro vesti bordate di piumino d’aquila abbottonate fino al collo.”
L’autrice, ripercorrendo i luoghi e le persone accomunate dalla turchese, racconta se stessa e il paesaggio nel quale è cresciuta, a partire da un oggetto: una cesta che una nativa aveva donato alla sua antenata Sara nel XIX secolo, quando si stabilì nelle terre del Colorado. Grazie al lavoro d’archivio, poi, ha appreso che alcune sue radici sono alle Bahamas dal 1788. E quando si trova sul posto per cercare la tomba dell’avo, compie una vera e propria indagine archeologica e topografica. E fa anche qualcosa in più. Come ammette lei stessa, non riuscendo a trovare la tomba perché il paesaggio era ormai cambiato e quello più recente aveva inghiottito quello più antico, prova a ragionare come un abitante del 19° secolo. E così, guardando al presunto sito della necropoli scomparsa dal mare, cioè cambiando punto di vista di osservazione, trova la tomba. E non è questo un insegnamento fondamentale per gli studi suo paesaggio antichi? Certo che lo è. Cambiare prospettiva, immedesimarsi nella mente di chi viveva all’epoca oggetto d’indagine, lasciarsi cogliere dal paesaggio, senza imporsi.
“Quanto al futuro non riusciamo a spingerci tanto in là: arriviamo al massimo a una settimana, o al prossimo pieno di benzina per il SUV. E se tutta questa attenzione la dedicassimo alle generazioni future, invece che a quelle passate? Se plasmassimo il nostro comportamento sulla base di ciò che i nostri trisnipoti potrebbero dedurne un domani? […] Per questo mi sembrava importante riemergere dalle acque della Storia, torbide o limpide che fossero, almeno con un brandello di mappa che restituisse la complessità e la follia della razza umana, invece che ridurre ogni cosa a un’immagine bidimensionale”.
E non manca, dunque, uno sguardo alle generazioni future, come del resto non poteva essere in una mente intrisa di scienza e amore per il paesaggio. Mi piace la riflessione conclusiva in cui l’autrice si riferisce ad una immagine bidimensionale. Un problema che affligge anche molti archeologi: il non riuscire a ragionare in tre dimensioni, anzi, in quattro dimensioni, ignorando come indirizzare i frutti della ricerca al futuro.
“Sul finire del giorno il fiume, che al mattino sembrava di giada, si accende di sfumature rame e indaco. L’ombra proiettata da una parete del canyon appartiene già al crepuscolo, col profilo marcato dal sole basso. Immersa in una luce albicocca la guardo scivolare sull’acqua. Il senso di pace che si respira sulle rive di un fiume induce uno stato di intensa lucidità che divampa in delirio; una quiete languida di colpo cede il posto a un’estasi bruciante. Il mio fragile corpo minaccia di esplodere da un momento all’altro davanti alla bellezza disarmante di questo mondo giurassico. Pietra e aria non esistono. Esiste solo la luce.“
In conclusione, voglio consigliare questo distillato di poetica storia personale del deserto del Colorado e della California a tutti i viaggiatori, ai curiosi, agli amanti dei libri scritti bene, ai sognatori, agli archeologi, ai professori, agli impiegati, a coloro che non pensano ci sia qualcosa da imparare dal paesaggio e a coloro che sono alla ricerca delle proprie radici, a coloro che credono che unendo la Sicilia alla Calabria si sviluppi davvero qualcosa (oltre al loro già ricco portafogli), ai giovani che lottano per il pianeta imbrattando prodotti della cultura materiale del passato che chiamiamo capolavori, affinché assestino il tiro dei loro colpi perché quei prodotti sono innocenti. Consiglio questa lettura travolgente a chi ancora crede che scrivere, e soprattutto leggere, ci salverà dall’estinzione.
Grazie Ellen Meloy, Grazie Edizioni Black Coffee, Grazie Colorado.
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